Roma 22 settembre 2012 – Lampedusa 3 ottobre 2013

Un anno fa sono stata a Roma. Mentre i bambini con Luca camminavano incantati per le strade della Roma più grandiosa e pittoresca, innamorandosene, ho incontrato un gruppo di amiche raccolto intorno a Chiara, che si era resa disponibile a raccontarci qualcosa del suo lavoro organizzando una giornata di ascolto e conoscenza di alcune realtà della Roma dei rifugiati.

Dalla Stazione Termini, dove abbiamo conosciuto Prime, un’associazione giovane che si occupa di aiutare concretamente i rifugiati a trovare lavoro, fino all’ufficio di Chiara al Centro Astalli, abbiamo idealmente seguito il percorso di tanti profughi che arrivano a Roma con storie di guerra, persecuzione e disperazione alle spalle e vi si ritrovano senza più nulla né un posto dove andare.

Attraverso il racconto appassionato di Chiara, abbiamo ricavato un quadro disarmante di come avvenga l’accoglienza dei richiedenti asilo politico in Italia, di quali siano i reali numeri italiani ed europei (che, contrariamente a quanto comunemente pensiamo per ragioni geografiche, non ci vedono in prima linea nell’emergenza), del non-senso delle procedure farraginose, dei cortocircuiti legislativi italiani e comunitari, dell’enormità delle risorse impiegate per pattugliare e respingere piuttosto che per proteggere e accogliere, e di quale uso indebito si faccia della parola accoglienza per quello che in realtà, una volta ottenuto lo status di rifugiato in Italia, è un abbandono.

Mentre ascoltavo, ero invasa dal senso di colpa per quella che fino a quel momento era stata la mia accettazione acritica di un’informazione incompleta e scorretta, che ci fa confondere ogni forma di migrazione con una migrazione di povertà, che ci butta periodicamente addosso questa sensazione di emergenza e di minaccia, facendoci ignorare le continue mancanze del nostro Paese nella gestione dell’ordinario, che sono vere e proprie violazioni degli obblighi nei confronti dei rifugiati, sanciti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e dal Protocollo del 1967.

Mi assaliva la vergogna per tutte le volte in cui avevo razionalmente approvato la retorica dell’aiutarli a casa loro che si basa sul nostro egocentrico concetto di benessere e di crisi economica, sulla presunzione di sapere cosa i migranti cerchino qui da noi, come se addirittura qualcosa volessero portarci via, senza domandarci realmente da dove vengano, quali esistenze abbiano lasciato e da cosa scappino, non alla ricerca di una vita migliore ma semplicemente all’inseguimento della possibilità di sopravvivere. In un mondo in cui si accettano quotidiane negazioni dei diritti umani fondamentali, ognuno di quegli uomini e donne in fuga, senza più riconoscimento della loro identità, dei loro titoli di studio e delle loro competenze, potremmo, da un giorno all’altro, essere noi, potrebbero essere i nostri figli, potrebbero essere stati i nostri genitori.

Sono venuta via da quella giornata nella Roma dei rifugiati con un carico di informazioni e sensazioni che da allora mi lavorano dentro, cui cerco di dare voce spesso in famiglia e con gli amici e che hanno preso forma prepotentemente nel grido di Papa Francesco a Lampedusa lo scorso luglio:

«Dov’è tuo fratello? la voce del suo sangue grida fino a me» dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. […]

Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? […]
Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna. […]
In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza! Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! […]

Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?, chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!

Non sono riuscita a scriverne finora, ammutolita dalla consapevolezza della mia assoluta impotenza e inadeguatezza. Nemmeno oggi ne scrivo davvero, ma vi rimando a chi può e sa farlo bene:

Dobbiamo conoscere, informarci, sdegnarci profondamente e trovare il coraggio di dire che in questo modo non si può andare avanti. Ne avvertiamo forte l’urgenza oggi di fronte a tutti quei morti a Lampedusa, dovremmo sentircene a maggior ragione in dovere nei confronti dei vivi, ancora in viaggio o già nelle nostre città.

One Thought on “Roma 22 settembre 2012 – Lampedusa 3 ottobre 2013

  1. Pingback: Terre senza promesse | valewanda

Rispondi

Post Navigation